Paura di sperare: un nuovo sguardo al lavoro
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Stiamo tutti attendendo una primavera definitiva, considerando che alcuni segnali ci fanno intendere che questo particolare periodo storico sul quale abbiamo speso tante parole potrebbe volgere al termine.


L’unicità di questa esperienza, per tutte le generazioni indistintamente, ha generato e genererà effetti che voglio cercare di immaginare, per aumentare l’attenzione su come dobbiamo guardare noi stessi e gli altri, nel contesto lavorativo come in quello della vita privata.


In questo articolo vorrei concentrarmi su tre profili, con la consapevolezza che l’argomento è enormemente esteso e difficile da confinare:


  • I diversi volti della paura

  • L’effetto della paura sulla speranza

  • I possibili condizionamenti nel lavoro dovuti alla paura con la necessità che si faccia crescere la speranza.


Paura di ammalarsi, della vicinanza degli altri, dell’aria che si respira negli ambienti chiusi. Paura di finire in ospedale, di perdere i propri cari, dei cambiamenti funzionali causati dalla malattia. Paura delle norme troppo restrittive, di avere contatti con persone che possano non essere protette. Paura di essere giudicati untori, di aver causato malattia agli altri, di contagiare i più deboli. Paura di perdere il posto di lavoro, di lavorare in ambienti non sicuri, della solitudine causata dalle costrizioni dello smart working. Paura che la propria azienda fallisca, che i clienti e i fornitori della propria azienda falliscano, dei colleghi troppo disinvolti sulla malattia, del giudizio dei colleghi per come la si interpreta. Paura che il proprio lavoro non risulti più utile o essenziale, di aver perso il controllo della propria attività a causa dell’assenza, del cambiamento del sistema di lavoro, paura di ciò che gli altri possono fare in quanto fuori dal controllo visivo quotidiano, degli errori nel lavoro, dei giudizi negativi emergenti da scambi tra colleghi invisibili, del ritorno alla normalità intesa come il modello pre pandemia.


Ne ho elencati molti ma certamente sono moltissimi quelli che non ho specificato, tuttavia in questo elenco ci sono paure che non avevamo mai avuto prima, modelli di comportamento e di evidenza della realtà che avevamo intravisto solo in alcuni film.


Tutte queste paure, come ogni trauma che accade ad ogni individuo, entrano a far parte di noi anche se non lo vogliamo. Sono entrati in modo dirompente nella mente di alcuni di noi, per alcuni si è trattato di dolori dovuti per i congiunti persi, per ricoveri o esperienze tremendamente reali, ma mi vorrei fermare alla paura. L’ansia che abbiamo vissuto associata a queste paure è stata presente come la paura di un evento non presente ma di cui avevamo conoscenza, per sentito dire o per le notizie che abbiamo raccolto.


C’è tuttavia una paura più nascosta e radicata che può davvero condizionare molto ciò che facciamo e ciò che faremo, la paura ancestrale. Può essere considerata la paura di un evento non presente e che mai è stato incontrato nel corso dell’esistenza, ma che sentiamo come possibile e imminente. Tra le paure ancestrali più comuni ci sono, ad esempio, la paura del buio e del vuoto, e sono argomenti che in particolare un famoso scienziato del secolo scorso, Carl Gustav Jung, ha approfondito nei suoi studi.


La paura, quindi, ci ha cambiati? io penso proprio di sì, forse più di quanto ci potremo accorgere oggi e in futuro. L’amigdala, responsabile della maggior parte delle nostre decisioni, come decisione fuori dal controllo razionale, è guidata dai meccanismi di protezione che il nostro cervello aziona. La paura è una delle leve più utilizzate anche nel marketing o nei contesti lavorativi, dove è necessario far prendere velocemente delle decisioni importanti alle persone. Quindi, saremo diversi anche senza volerlo, proprio nella vita lavorativa e privata.


La speranza è la luce vitale che quotidianamente accompagna l’esistenza di ogni individuo, fatto banalmente naturale da considerare, tuttavia è un passaggio per giungere alla domanda: dentro di noi, la speranza ha oggi lo stesso significato di quella che avevamo prima della pandemia ? La risposta è probabilmente NO, ma come reinterpretiamo oggi la speranza, più o meno consapevolmente, è il punto di riflessione.




Penso ai giovani dai 15 ai 25 anni, dotati di una consapevolezza della necessità di futuro, colti nel periodo più fresco del loro ciclo vitale, quando si esprimono i propri sogni. Per chi ha vissuto quel periodo risulta più facile la connessione, la loro esperienza invece è stata attraversata da un buio molto profondo lungo due anni. Queste sono le persone che dovranno costituire l’ossatura delle società civili e delle aziende, ma come sarà possibile con una speranza condizionata? Una speranza spenta per diversi momenti di questo lungo periodo.


Sarà possibile per forza: non c’è sconto per nessun trauma dinanzi allo svolgersi della vita e quindi saranno obbligati ad andare oltre, a convivere con questa esperienza che li avrà segnati e che solo loro potranno metabolizzare con tutti gli strumenti a disposizione. La speranza è per tutti la molla che permette di alzarsi alla mattina con la voglia di fare, di lottare, di crescere, quindi è un fattore determinante per qualsiasi persona che fa parte di un’organizzazione.


Dobbiamo fare attenzione che le persone intorno a noi, collaboratori stretti, clienti e fornitori, abbiano ancora un forte senso della speranza, altrimenti ci troveremo a dovergliela confezionare noi e potremmo scoprire che è difficile o impossibile, perdendo di conseguenza le relazioni. La via per aiutarci a ritrovare speranza forse sta nel cercare di edificare insieme frammenti di cose semplici necessarie per il presente e il futuro, amicizia, affetto, amore.


Il lavoro è l’espressione più concreta della realizzazione personale di un individuo e risulta essere il campo dove mediamente si spendono attivamente più ore in una giornata. Anche il concetto di lavoro ha certamente subito una radicale trasformazione, non tanto etimologica quanto concettuale. Il lavoro senza più fisicità e presenza, il lavoro e la gestione organizzativa a distanza, il lavoro a tempo perso basato solo sui risultati, tale in quanto svolto in qualsiasi fascia oraria, il diritto al lavoro che per alcuni è diventato la pretesa di non muoversi più dalla propria abitazione e per altri la perdita del posto di lavoro, il lavoro bistrattato nella sua dignità da sussidi statali.

Superare la paura per riaccendere la speranza e per tornare ad esprimere il lavoro in tutte le sue espressioni, questa è la sintesi che vorrei condividere. Ma più che superarla la paura bisogna mangiarla e trasformarla, utilizzando la speranza come luce che rende possibile accendere ogni energia per andare avanti verso un ignoto positivo.


Il concetto di lavoro, invece, dovrebbe diventare un argomento di analisi all’interno di tutte le organizzazioni dopo la pandemia, perché si deve rivedere la concezione di gruppo, il suo valore, la sua importanza e la sua priorità rispetto agli interessi personali che si sono certamente dilatati nel modello di isolamento vissuto. Non è da intendersi come una terapia di gruppo, ma di certo il confronto può far conoscere i concetti personali e le convergenze del gruppo nel tracciare la via comune.


Si può fare molto nell’aiutare i giovani a sperare, soprattutto con l’esempio. A noi interpreti attuali del lavoro tocca il compito di tornare a metabolizzare e sperare per primi, perché dai nostri occhi possono uscire i primi raggi della necessaria speranza.



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